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Immagine del redattoreCSA Offida srl

Contratto di lavoro a termine: cosa può essere disciplinato dalla contrattazione collettiva


Il contratto di lavoro a termine è una delle tante tipologie disciplinate dal nostro ordinamento oltre che da quello comunitario.

La prima funzione di questo rapporto di lavoro è quella di rispondere a esigenze temporanee delle imprese, fluttuazioni di mercato, tipiche di un sistema economico competitivo come il nostro. Il contratto a tempo determinato in questi casi non è necessariamente il preludio di una stabilizzazione, ma uno strumento necessario per dimensionare l’azienda per il tempo necessario a farle cogliere le opportunità di mercato.

L’instaurazione di un rapporto a tempo determinato in altre occasioni può invece rappresentare una chiave di accesso al mondo del lavoro stabile per chi ne è stato espulso e in molti casi per chi vi accede per la prima volta, uno strumento utile a “testare” le qualità e l’affidabilità di un lavoratore prima di poterne stabilizzare il rapporto.

Rinnovo e proroga del termine: deroghe in tempo di pandemia

L’attuale disciplina del contratto a tempo determinato ammette l’agevole apposizione del termine solo nel caso in cui si tratti del primo rapporto di lavoro instaurato tra il datore e il lavoratore. In questo caso, il termine apposto non deve essere sostenuto da motivazioni di alcun tipo (contratto “acausale”), le parti possono limitarsi a pattuirlo, purché la durata del rapporto non ecceda i 12 mesi.

Qualora la durata ecceda tale limite, anche solo per effetto di una proroga, o al primo rapporto ne dovesse succedere uno nuovo, allora la legislazione ordinaria ammette l’apposizione di un termine solo al ricorrere di una condizione specifica (causale), da esplicitare e dimostrare da parte del datore di lavoro, pena la conversione a tempo indeterminato.

Come noto, oltre alla stagionalità, le condizioni legittimanti l’apposizione del termine ai sensi di legge dell’art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015 sono:

1) la sostituzione di un lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro;

2) esigenze temporanee e oggettive, estranee all'ordinaria attività;

3) esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell'attività ordinaria.

È evidente che con simili limitazioni un datore di lavoro non rischierà di apporre un termine superiore a 12 mesi, né di reiterare un rapporto a tempo determinato con il medesimo soggetto e, in assenza di possibilità di stabilizzazione, dopo i 12 mesi “acausali”, qualora gli si presenti la necessità di aumentare temporaneamente l’organico, assumerà una persona diversa.

In tempo di pandemia, il legislatore ha preso coscienza del limite che la disciplina ordinaria comporta ed ha ammesso, in via straordinaria e temporanea, che sia possibile prorogare un contratto a termine oltre i 12 mesi o rinnovarlo anche in assenza delle condizioni contemplate dall’art. 19 del D.Lgs. n. 81/2015.

Diffidenza verso la contrattazione collettiva in tema di causale

Il quadro normativo che disciplina il contratto a termine è composto di regole specifiche comuni a tutti i settori, nella maggior parte dei casi derogabili ad opera dei contratti collettivi, siano essi nazionali, territoriali o aziendali, purché stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale o loro RSA o RSU, come ricordato in ultimo anche dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro con circolare n. 9/2019.

La contrattazione collettiva può agire su quasi tutti gli aspetti, fatta eccezione per le causali, e in particolare può modificare:

- massima durata complessiva dei rapporti a termine pari a 24 mesi;

- obbligo di intervallo minimo tra un contratto a termine e il successivo;

- contingentamento delle assunzioni a termine entro il 20% dei rapporti a tempo indeterminato;

- diritto di precedenza per assunzioni a tempo indeterminato;

- definizione delle attività stagionali.

In questi casi, la contrattazione collettiva opera non in “rettifica” delle disposizioni di legge ma adempie a quel ruolo sussidiario dallo stesso Legislatore previsto. La locuzione “fatte salve le diverse disposizioni dei contratti collettivi” rinvenibile in tanti passaggi del decreto legislativo rappresenta proprio la cedibilità legale rispetto alla norma pattizia. In sostanza, solo in carenza di limiti contrattuali rivivono quelli legali.

Quindi, se la direzione aziendale con la RSA o RSU stabilisse un’intesa per individuare limiti di percentuale di contingentamento superiori al 20% o modalità di calcolo degli stessi diverse da quelle indicate dalla legge, non opererebbe in deroga ma si riapproprierebbe del suo naturale ruolo di meglio regolamentare le dinamiche organizzative specifiche rispetto a quelle astratte e generali tipiche di una norma di legge.

Contratti di prossimità

La contrattazione collettiva ordinaria, pertanto, non ha il potere di incidere sulle causali abilitanti il contratto a termine. Però le parti sociali, a livello territoriale o aziendale, hanno un’arma ancora più forte a disposizione. La contrattazione collettiva di prossimità, o contrattazione adattativa, come disciplinata dall’art. 8 del D.L. n. 138/2011, è l’unico strumento a disposizione degli operatori per permettere un uso del contratto a tempo determinato più funzionale alle necessità temporanee delle aziende, recuperando la possibilità di far succedere più rapporti acausali senza rischiare di veder disconosciuto il termine apposto.

Per poter far ciò i contratti aziendali o territoriali devono essere sottoscritti, anche in questo caso, dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ed essere finalizzati a scopi specifici, quali: la maggior occupazione, la qualità dei contratti di lavoro, l’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, l’emersione del lavoro irregolare, gli incrementi di competitività e di salario, la gestione di crisi aziendali e occupazionali, gli investimenti e l’avvio di nuove attività.

L’individuazione anche di una sola delle finalità descritte permetterebbe alle parti sociali di regolare il contratto a tempo determinato anche in deroga alle disposizioni di legge, potendo perciò modificare le condizioni necessarie ad apporre il termine sino anche ad eliminarle.

Le finalità dell’intesa e la loro effettività devono evincersi chiaramente dalla scrittura dell’intesa stessa ed essere manifeste nella dinamica aziendale. La giurisprudenza di questi anni ha indicato questo elemento come indispensabile per la tenuta stessa dell’accordo, che, a differenza di quanto evidenziato per la contrattazione ordinaria, in questo caso opera proprio in deroga alle disposizioni di legge, modificandone finalità e limiti.

L’attenzione, pertanto, deve essere rigorosa nella scrittura degli accordi di prossimità nei quali troppo spesso la “reticenza” di talune sigle sindacali vorrebbe lasciare all’accordo scritto forme ampie e non definite sfuggendo parole quali “deroga”, “modifica”, “in superamento delle disposizioni di legge o CCNL”, insomma spesso per definire una “specifica intesa derogatoria” è utile dotarsi di un codice del lavoro quanto di un vocabolario di sinonimi e contrari.

Cornice giuridica entro la quale agire in deroga alla legge

Lo spazio che si apre alla contrattazione territoriale o aziendale con l’art. 8 citato non è tuttavia privo di limiti e, oltre le attenzioni ricordate circa le finalità, le imprese e i sindacati aziendali devono sempre osservare il quadro normativo di contesto.

I contratti di prossimità devono infatti operare nel rispetto della Costituzione, dei vicoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali.

In tema di contratti a termine, la cornice che deriva da tali limiti è data principalmente dalla Direttiva comunitaria n. 1999/70/CE, che impone agli Stati membri l’adozione di una o più misure volte a prevenire gli abusi della successione di contratti a tempo determinato, tenendo conto delle esigenze di settori e/o categorie specifiche di lavoratori.

Delle tre misure previste dalla Direttiva, una attiene alle ragioni che giustificano il rinnovo dei contratti, una alla durata massima totale dei rapporti e una al numero dei rinnovi.

È quindi fondamentale che il superamento della causale da parte del contratto di prossimità funzionale a consentire l’uso della successione dei contratti a termine abbia cura di disegnare o mantenere un quadro di insieme volto a contrastarne l’abuso.

Per esempio, sarebbe nullo un contratto aziendale di prossimità che ponesse su identico piano un contratto a termine, o la reiterazione di esso, con un contratto a tempo indeterminato, che permane, sia pure con i distinguo sopra velocemente ricordati, la forma comune di inserimento al lavoro.

La citata direttiva nel suo preambolo recita infatti: “Le parti firmatarie dell'accordo riconoscono che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere la forma comune dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori. Esse inoltre riconoscono che i contratti a tempo determinato rispondono, in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei lavoratori”.

Pertanto, ogni specifica intesa raggiunta dalle parti non potrà che andare a rintracciare nel suo contenuto quelle circostanze utili a imprese e lavoratori che lo stesso Legislatore comunitario ha specificato.


FONTE: Ipsoa Quotidiano Lavoro



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